Di recente mi è capitato di ragionare con alcuni colleghi (e amici) sul futuro della traduzione e – ovviamente – del mestiere del traduttore. Non nascondo di essere una sostenitrice accanita del post-editing, che, da quello che noto intorno a me, pare spaventi molto i traduttori più “puristi”. Infatti sembra che i più tradizionalisti lo sentano come una minaccia al futuro della propria carriera e soprattutto sostengono che la traduzione risultante da un post-editing sia sempre di qualità inferiore rispetto a quella di un traduttore in carne ed ossa. La questione, per come la vedo io, è molto più complessa di così. Il post-editing non può essere etichettato come “buono” o “cattivo” solo sulla base del risultato finale della traduzione, intanto perché, come sa bene chi lavora nel campo, la traduzione non è univoca, non ha regole rigide che definiscono una “buona traduzione” e la distinguano da una “non buona”, ma muta in modo fluido a seconda delle tipologie, dei registri, degli scopi e di una serie di variabili che necessariamente influenzano la resa del testo di arrivo.

Come mutano le scelte a livello prettamente testuale quando si è di fronte a una traduzione, cambiano anche le scelte a livello organizzativo e di approccio nel momento in cui si affronta il testo. Se ad esempio la mia scelta di tradurre tail come coda o seguito è influenzata dal contesto in cui mi trovo, anche la scelta del grado di cura del testo è influenzata dalla sua finalità e soprattutto dalla qualità del testo di partenza.

Certamente il post-editing non è applicabile a tutta la traduzione, l’esempio più banale è quello della traduzione letteraria: per quanto una macchina possa possedere un’intelligenza fine e sviluppata, prima di arrivare a macchine emotive (e non parlo di macchine con un’emotività programmata, ma umanamente emotive e compassionevoli), la tecnologia ha molta strada da fare, troppa da potercene realmente preoccupare, perciò il messaggio profondo di un’opera letteraria non può essere rielaborato in modo completo e umano dalla macchina. Tuttavia c’è una grossa fetta di testi (forse più grossa di quanto ci sentiamo di ammettere) che non ha bisogno di una comprensione e una trasposizione emotive, ma che veicola un messaggio tecnico o con finalità comunicative a livello più materiale. Questi testi in particolare, hanno ancora bisogno di un intervento umano, perché attualmente le intelligenze artificiali che stanno dietro alla Machine Translation non hanno ancora raggiunto il livello di sviluppo necessario ad una traduzione completamente autonoma, ma questo intervento umano può essere ridotto ed è esattamente lo scopo del post-editing.

Vignetta di Mox.

Nei testi che hanno una certa regolarità nella forma e nelle finalità, il post-editing fa miracoli: i volumi che un traduttore riesce a gestire, senza perdere di qualità, sono decisamente maggiori di quelli di una traduzione classica e soprattutto l’impegno mentale è ridotto, perciò la mente resta fresca e attiva più a lungo, migliora la concentrazione sul lavoro ed è più semplice ritagliarsi del tempo da dedicare ad attività parallele al lavoro, fossero anche la formazione, la lettura, l’aggiornamento del proprio blog (o anche dette “la trinità del buon traduttore”). Sembra che stia cercando di pubblicizzare un innovativo integratore alimentare, ma la verità è che ogni giorno ho l’occasione di sperimentare i vantaggi del post-editing su me stessa ed è per questo che mi schiero a suo favore.

Gli scettici chiaramente non mancano mai, ma credo che, a questo punto dello sviluppo tecnologico, sia tempo anche per noi traduttori di guardare al futuro che la nostra professione ci sta proponendo e provare ad accoglierlo, dove possibile, a braccia aperte, sfruttando al massimo i vantaggi che può portare.

Post-editing: una risorsa o una minaccia?

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